Fate attenzione alla data: 1965. In quell’anno esce Cronache del dopobomba (Dr. Bloodmoney Or How We Got Along After The Bomb, 1964), di Philip Kindred Dick, uno dei più importanti e innovativi autori di fantascienza di tutti i tempi, famoso presso il grande pubblico per essere stato anche l’autore del racconto Do Androids Dream of Electric Sheep? (
1968) da cui è stato tratto il celebre film Blade Runner. Per chi non l’avesse letto (ma si cerchi l’Urania n. 409 del 7 novembre 1965 sulle bancarelle di giornalini e libri usati, ne vale davvero la pena), ricordiamo brevemente che in esso si descrive un mondo – il nostro! – riprecipitato verso un’epoca di barbarie e di arretratezze tecnologiche e sociali, in seguito a un rovinoso conflitto nucleare. Romanzo-testimonianza di una paura, quella degli anni Sessanta, di una guerra definitiva tra le due Superpotenze dell’epoca, questo testo inaugurò un vero e proprio genere che, nel decennio successivo, vide una sterminata proliferazione di rielaborazioni sul tema dell’inverno-postatomico.
Eppure… eppure a ben vedere Cronache del dopobomba, ancorché geniale e incisivo, non costituisce affatto il primo esempio assoluto in cui si affronta questo drammatico argomento. Addirittura quasi un decennio prima, più precisamente nel 1957, c’era già stato qualcun altro che aveva descritto una Terra tornata ad ere e a tempi che si credevano dimenticati per sempre. Per chi non l’avesse capito, stiamo parlando di Luciano Bottaro, uno dei principali e riconosciuti Maestri internazionali dei comics, autore di decine e decine di character che sono entrati, a buon diritto, nella storia del fumetto umoristico di tutti i tempi.
In quell’anno l’artista di Rapallo, come sempre in anticipo sui tempi, pubblica per la prima volta in Francia una nuova serie che ha per protagonisti i Postorici, buffi personaggi che vivono in un contesto preistorico fatto di caverne, indumenti approssimativi e leopardati, animali improbabili e terrificanti, fenomeni naturali imponenti e incontrollabili. È evidente che ci troviamo pressappoco nell’Età della Pietra, o giù di lì, anche se non è esattamente quella che abbiamo studiato sui libri di scuola.
Fin dai primi episodi ci rendiamo infatti conto, attraverso le vestigia tecnologiche di una scomparsa civiltà che di tanto in tanto affiorano durante la narrazione, che qui non siamo nel Passato, ma nel Futuro! E anche se le cause delle profonde trasformazioni che la natura e il tessuto sociale hanno subìto non vengono (almeno all’inizio) spiegate chiaramente, appare subito evidente che la retrocessione epocale della Terra non può essere stata provocata che da un’immane catastrofe, quasi sicuramente nucleare. Proprio come nel Dick del Dopobomba, appunto.
A muoversi in questo mondo sono alcuni significativi e riusciti personaggi: il geniale Pitagora, innazitutto, sorta di proto-scienziato che con caparbietà e tenacia si è proposto di reinventare la civiltà, cercando inutilmente di convincere i propri consimili che loro il loro mondo è solo il prodotto dell’autodistruzione di una precedente società umana, tecnologicamente ben più evoluta. A fargli da contraltare è il professor Elia che, del tutto disinteressato al passato, è convinto di aver trovato eccellenti motivi di interesse nel presente nella caccia a… formose e ruspanti cavernicole. Quindi Pinko e Ponko che, seppur discepoli di Pitagora, non sono animati dalla stessa curiosità e sete di conoscenza. Esilarante nella sua pateticità è poi l’Accademia delle Scienze, pomposa associazione di vecchi e ottusi barbogi, sacerdoteschi depositari del Sapere Ufficiale (e quindi immersi nell’ignoranza e nel pregiudizio assoluti), che si oppongono con tutte le loro forze ad ammettere la realtà e l’evidenza delle cose.
Un mondo, dunque, in cui il gioco delle parti è affidato a personaggi dal valore simbolico, calibrati interpreti di comportamenti umani quantomai universali. Un Bottaro esilarante e in gran forma ma, a ben vedere, anche profondamente pessimista: il Maestro ligure tratteggia infatti una società che pare aver imparato poco o nulla dagli errori del passato. Una società che, anzi, sembra perseguire una scientifica ricerca dell’ignoranza della propria storia, vista più come un fardello fastidioso e pedante che come prezioso patrimonio di esperienze a cui attingere; tornato al punto di partenza l’uomo pare così lasciarsi sfuggire la preziosa opportunità di cominciare a fare finalmente sul serio. Osservate bene i simpatici cavernicoli: chi più chi meno, sembrano infatti volersi incamminare nuovamente sulla stessa strada che già una volta ha condotto l’umanità dritta dritta al disastro.
Pessimismo totale e senza via d’uscita? Tutto sommato diremmo di no. Bottaro, in questa sottintesa condanna al genere umano, pare indicarci, nella figura di Pitagora, la strada da seguire, quantomeno per provare a spezzare ciò che ci appare ineluttabile. Opporsi all’ufficialità, all’establishment, al sapere consolidato e immutabile di tutte le scienze e di tutte le chiese è, per il nostro, la sola speranza per poter provare a invertire la rotta. O almeno per non rendersi complici (e vittime, allo stesso tempo) di un’omologazione che, oggi ancora più di ieri, tende ad appiattire tutto e tutti, in una sorta di oceanica melassa culturale.
È vero, siamo nel Duemila e non ci sono più le Superpotenze, ma il rischio di un Grande Cataclisma non ci ha per nulla abbandonato, ha solo cambiato faccia e modo di presentarsi: ora è più subdolo e strisciante, ma la sua pericolosità resta drammaticamente intatta.
È per questo che il messaggio di Bottaro, nei Postorici, come nel resto della sua cinquantennale produzione, rimane sempre di un’attualità estrema. La sua grandezza, semmai, è quella di riuscire a trasmettere il suo pensiero attraverso le delicate lenti dell’umorismo.
Non è da tutti, lo converrete.
di Marco Della Croce (© 2001-2003)